Giornata Internazionale delle persone con disabilità: per un mondo a portata di tutti
Dal 1992, il 3 dicembre è la Giornata internazionale delle persone con disabilità.
Le Nazioni Unite l’hanno indetta per aumentare la consapevolezza verso la comprensione dei problemi connessi alla disabilità e l’impegno per garantire la dignità, i diritti e il benessere delle persone con disabilità.
Ogni 3 dicembre la giornata è dedicata a un tema specifico.
Nel 2021 il tema previsto è: “Trasformazione verso società sostenibili e resilienti per tutti”, con l’obiettivo di favorire iniziative in favore dei disabili in linea con l’attuazione dell’Agenda 2030 e degli altri accordi internazionali, tra i quali la Nuova Agenda Urbana.
“Non lasciare nessuno indietro”, è proprio l’indicazione dell’Agenda 2030 per ottenere uno sviluppo sostenibile e inclusivo e promuovere una società resiliente per tutti.
Equità alla base del progetto
Il tema sottolinea l’importanza che sia proprio la società ad adattarsi e “formarsi” (nel senso di prendere le giuste forme) alle necessità e ai bisogni di tutte le persone della comunità, nessuno escluso, e non come spesso avviene, il contrario.
La capacità di affrontare problemi e superare ostacoli non deve tanto essere la resilienza dei singoli, quanto la possibilità di ciascuno ad accedere ai diversi servizi senza difficoltà.
Parlare però di servizi è riduttivo, perché è un’affermazione che rimanda giustamente all’ idea delle barriere architettoniche e quindi al pensiero che sia sufficiente lavorare sodo su queste, per cancellare il problema e rendere la società sostenibile e resiliente per tutti, come richiede lo slogan della giornata.
Sicuramente l’eliminazione delle barriere architettoniche aiuterebbe una gran fetta di popolazione, cioè tutti coloro che hanno una deambulazione difficoltosa e/o ridotta, dagli anziani, ai bambini, ai disabili, ai malati anche temporanei ecc.
Molti di noi conoscono per esperienza diretta la fatica e la frustrazione che si prova in alcune circostanze (basti pensare a una persona con la gamba ingessata e quindi costretta all’uso di stampelle, che vuole recarsi in autonomia in un negozio con l’ingresso posto in cima a cinque gradini in marmo, durante una giornata di pioggia).
Non si tratta quindi esclusivamente di accesso ai servizi, ma di un concetto di inclusione più ampio che preveda che la collettività si faccia carico dell’altro, la società deve adattarsi e prevedere di coinvolgere tutti, in un’ottica di supporto e di eliminazione di quello che gli specialisti chiamano handicap.
Negli ultimi anni, infatti, si è superato il paradigma bio-medico (che considerava la malattia riconducibile a variabili biologiche che il medico doveva curare) per arrivare al modello bio-psico-sociale che ha promosso un progresso notevole nel ripensare la disabilità, sottolineando la responsabilità della società nel determinare le limitazioni dell’individuo, spesso costretto a vivere in contesti non adeguati alle proprie esigenze.
Non si tratta tanto di uguaglianza, quanto di equità.
Credo che in molti conoscano questa vignetta che ben spiega la differenza tra i due vocaboli, che spesso sono erroneamente utilizzati come sinonimi.
L’uguaglianza presume di dare a tutti le stesse cose.
L’equità, invece, prevede di dare a tutti le stesse possibilità, è un po’ quello che abbiamo visto quest’estate alle paralimpiadi, per cui ogni atleta gareggiava nella propria disciplina con tutti i supporti necessari perché la sua prestazione potesse essere alla pari con l’avversario.
È quanto succede a scuola quando un alunno con particolari difficoltà è autorizzato a utilizzare -ad esempio- mappe concettuali o la calcolatrice per lo svolgimento della verifica: non si tratta di un’agevolazione dello studente, ma di permettergli di svolgere in maniera autonoma il compito avendo le stesse possibilità dei compagni. Perseguendo questo, si può arrivare davvero all’indicazione dell’Agenda 2030 che abbiamo visto essere quella di “non lasciare indietro nessuno”.
Giornata internazionale delle persone con disabilità: il problema delle “etichette”
Poco fa si accennava al recente cambio di paradigma culturale, con il conseguente affermarsi del modello bio-psico-sociale.
Questo cambiamento ha mandato all’aria le convinzioni precedenti e ha finalmente posto al centro del percorso, sia di malattia che di guarigione, la persona, in tutta la sua complessità (dal lat. complexus, cioè tessuto insieme) sia dal punto di vista meramente organico, ma anche psicologico e sociale.
A questo punto, in molti hanno sollevato la questione di come poter utilizzare in modo corretto i termini, senza offendere nessuno.
Disabile? Diversamente abile? Persona con handicap?
Bebe Vio, giovane campionessa paralimpica di scherma alla domanda: “C’è differenza fra dire “disabile” e “persona con disabilità”?” Così risponde: “Sì, c’è una grossa differenza, perché nel primo caso si identifica la persona con la sua disabilità, nel secondo si mette l’attenzione sulla persona a prescindere dalla sua disabilità”.
La sociologa australiana Judi Singer, partendo dalla critica rivolta da alcuni verso l’applicazione di criteri statistici alle persone, ha coniato nel 1990 il termine “neurodiversità” per descrivere condizioni come l’autismo, i DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento) e L’AD(H)D (Disturbo da Deficit dell’Attenzione e Iperattività), allo scopo di spostare l’attenzione da modi di imparare e ragionare atipici senza considerarli esclusivamente quali frutto del deficit.
Il termine Neurodiversità rappresenta la varianza tra gli individui.
La Neurodiversità pone il focus sulla discrepanza tra richieste dell’ambiente e caratteristiche personali, e pone l’accento sulle risorse del singolo individuo, più che sulle mancanze, non si punta a normalizzare chi ha un deficit, ma ad aumentare le sue potenzialità.
In questo modo la diversità diventa ricchezza, così avere un bimbo (o un collega) neurodiverso in classe (o in ufficio) diventa una possibilità per tutti di fare esperienze stimolanti e impensate altrimenti. Le persone in carrozzina, o magari con la sindrome di Down a cui molti pensano al sentire la parola “disabile” diventano Giorgio, Sofia, Camilla e Carlo.
La disabilità (o Neurodiversità) vista da vicino
Per quanto sia necessario parlare di punti di forza, risorse e possibilità, chi vive questa condizione in prima persona o di un familiare di sicuro, non può non pensare anche alla fatica e alle difficoltà che ogni giorno deve affrontare.
Fin da piccoli bisogna destreggiarsi tra la burocrazia; la speranza che l’insegnante di sostegno sia presente in modo continuativo e spinta dalla passione educativa, più che dal punteggio per la graduatoria per un posto di ruolo; le varie terapie che costringono spesso i genitori a giochi di incastri da un livello di “Tetris” avanzato… Una volta compiuta la maggiore età poi si diventa improvvisamente adulti , e purtroppo ancora spesso più invisibili, per tutti (scuola, Azienda Sanitaria Locale, Servizio Sociale territoriale). Questo accade anche se non sempre (come per chiunque) l’età anagrafica corrisponde all’età di funzionamento (così viene chiamato dai tecnici il livello di maturità).
Qui le preoccupazioni rispetto al “cosa succede” al famoso “dopo di noi” aumentano, e diventano una fonte inesauribile d’ansia soprattutto per i care givers.
I care givers chi sono?
Sono coloro che hanno a cuore il progetto di vita e il benessere della persona, di solito sono i familiari (genitori, fratelli, figli a seconda dell’età anagrafica del soggetto). Nella maggior parte dei casi sono stati colti alla sprovvista di fronte alla disabilità del proprio caro, non solo non se l’aspettavano, ma molto probabilmente non conoscevano nulla di questo mondo.
Come si è definito il papà di un bambino neurodiverso: “Prima dell’arrivo di mio figlio ero ignorante, non sapevo assolutamente nulla di disabilità e non mi stupisco di chi non conosce questa realtà.”
Per questo è importante diffondere una cultura che faccia attenzione alle diversità, per creare un ambiente il più inclusivo possibile nei diversi contesti di vita: scuola, sport, lavoro ecc.
Quali aiuti per affrontare le sfide quotidiane?
Come accettare una diagnosi di disabilità? Come superare i momenti di crisi? Come trovare la soluzione migliore tra i diversi contributi economici, voucher e servizi territoriali?
Sicuramente la risposta è rivolgersi a dei professionisti.
Per le questioni mediche è bene rivolgersi al medico e magari allo specialista, per le piccole e grandi difficoltà quotidiane si può chiedere aiuto al terapista, per quanto riguarda i servizi sul territorio ci si può affidare all’Assistente Sociale.
Grazie al servizio Socio Assistenziale offerto da Stimulus è possibile avvalersi di un Care Manager che si occupa della presa in carico della persona, offrendo delle soluzioni praticabili sul proprio territorio e che prevedono un lavoro di rete tra le diverse realtà già presenti.
Tra le richieste più ricorrenti che il Care Manager si occupa di rispondere ci sono:
- ricerca di assistenti domiciliari/badanti
- procedure per ottenere l’invalidità, l’accompagnamento, legge 104
- quali diritti e quali contributi economici in caso di neo-genitori
Poter confrontarsi con un professionista può aiutare a trovare soluzioni a cui non si pensa e a velocizzare i tempi per mettere in campo la giusta soluzione.
A cura di Sara Comandatore, Social Care Coordinator, Stimulus Italia